martedì 11 agosto 2009

Italiani popolo di razzisti?

Una delle cose che più mi rilassano è abbandonare le mie stanche membra sul lettino da spiaggia, sotto il fresco riparo dell'ombrellone, nella canicola di un assolato pomeriggio estivo e lasciarmi poi cullare dai rumori circostanti, che diventano per la mia mente i traghettatori verso onirici lidi. Lo sciabordìo delle onde, le voci dei bimbi che giocano, le conversazioni dei vicini d'ombrellone, gli improvvisi scoppi di pianto o di risa in qualche imprecisato punto della spiaggia, gli annunci gracchiati all'altoparlante... è una cacofonia di suoni che, per misteriosa alchimia, giunge alle mie orecchie come una cantilena di sottofondo, una dolce ninna nanna che mi concilia il sonno.

Domenica pomeriggio ero al mare e, grazie anche all'effetto jet-lag non ancora superato dopo il viaggio di ritorno da San Francisco, stavo per scivolare nell'incoscienza del sonno quando dal groviglio dei vari rumori che mi stavano cullando si è staccato un dialogo che ha ridestato la mia attenzione: i miei vicini d'ombrellone, due signori di mezza età, erano intenti a disquisire sul fatto che gli Italiani fossero un popolo di razzisti, perdipiù irriconoscenti in quanto dimentichi del loro passato da emigranti.

Sostenevano, per avvalorare la loro tesi, che l'italica compagine di bravi ed onesti cittadini non si faccia scrupolo di manifestare esplicitamente e a volte in maniera assai poco civile ed ortodossa il proprio odio nei confronti degli stranieri, tacciati in massa di essere portatori di violenza, micro e macrocriminalità e disordine sociale, nonchè genericamente di rubare posti di lavoro a chi su quei posti vanterebbe una sorta di dritto di nascita. Tutto ciò, a loro avviso, configurerebbe un atteggiamento gravemente riprorevole e moralmente sanzionabile, in considerazione del fatto che gli stranieri ospiti nel nostro Paese sono povere persone in cerca di una vita migliore rispetto a quella che era loro destinata in Patria, nè più nè meno al pari degli Italiani emigrati in ogni parte del mondo a partire dai primi del Novecento.
In definitiva, sempre a giudizio di quei signori, mentre noi abbiamo ben saputo approfittare dell'ospitalità straniera quando più ci ha fatto comodo, adesso ci guardiamo bene dal restituire il favore aprendo le porte con caritatevole umanità a chi bussa alle porte dei nostri confini con la speranza di un futuro migliore (o di un futuro sic et simpliciter). D'altronde siamo bravi a sgravarci da ogni senso di colpa barricandoci dietro all'idea che non sia accettabile dare ospitalità a chi ha la delinquenza nel DNA, ma in tal modo ci dimostriamo dimentichi in malafede di quando fummo noi quelli che esportarono la criminalità nei Paesi che ci ospitavano (vedi, ad esempio, la mafia in America).
La conversazione dei miei vicini d'ombrellone finiva in conclusione per essere un j'accuse senza appello agli Italiani nonchè una populistica difesa ad oltranza degli immigrati nel nostro Bel Paese.

Quel pour parler, i toni con i quali veniva portato avanti, le argomentazioni che lo supportavano, mi hanno terribilmente infastidita: stesa sul mio lettino, ormai lontana dal cadere tra le braccia di Morfeo, ho dato il via ad una serie di riflessioni, cercando di capire cosa fosse che tanto mi aveva innervosita nella conversazione della quale ero stata casuale ascoltatrice.

Gli Italiani perlopiù non amano molto gli immigrati stranieri, questo è innegabilmente vero, come vero è che possiedono una innata tendenza a generalizzare e ad essere poco elastici nei giudizi.
Il fatto è che io penso sia la realtà quotidiana che sperimentiamo personalmente nei confronti degli stranieri che vivono qui da noi a condurci facilmente verso un'immagine negativa degli stessi e non una serie di pregiudizi dettati da un atteggiamento
a priori xenofobo e razzista .

Se il nordafricano insiste in maniera arrogante nel volerti vendere i suoi prodotti in spiaggia o all'uscita del supermercato, se la filippina ti propone il suo "Masaaggio" con petulante insistenza anche se ti vede addormentata sotto l'ombrellone, se la polacca si sente in diritto di trattarti come una pezza da piedi e di raggirarti per il semplice fatto di essere disposta a sostituirti nelle incombenze più umili e meno gratificanti, se il musulmano impone la sua religione e la sua cultura a casa tua, se i cinesi proliferano come le formichine e - senza parere - si appropriano del tuo territorio, facendo sì che tu ti accorga dell'invasione solo quando ormai non puoi più nulla, se gli albanesi si creano uno spazio nel tessuto sociale con la logica della prepotenza e della violenza, tu - che vivi nel tuo Paese (peraltro già martoriato dalla criminalità nostrana e dalla perdita dei fondamentali valori morali e sociali ad opera di parte dei tuoi connazionali) - non puoi non chiederti quale diritto abbiano queste persone di impossessarsi totalmente di ciò che è tuo, emarginandoti lentamente ai bordi di una realtà di cui finisci per non esser più padrone.
E non parliamo poi di tutti quegli episodi di criminalità e violenza che quasi quotidianamente assurgono agli onori delle cronache e che vedono come protagonisti immigrati delle più disparate etnìe... Certo, i delinquenti non sono solo albanesi o rom, anche gli Italiani fanno la loro parte e sicuramente non possono godere di una esimente per il fatto di giocare in casa, ma ritengo che approfittare dell'ospitalità di una nazione e poi comportarsi scientemente in modo contrario a quelle che sono le sue regole sociali e di diritto costituisca inappellabilmente un'aggravante del comportamento delittuoso.

E' come se tu accogliessi qualche povero bisognoso nella comodità della tua casa medio borghese e, comportandoti da bravo ospite, facessi del tutto per metterlo a proprio agio, ottenendo in cambio un atteggiamento contrario ad ogni regola di buona ospitalità; è come se quell'ospite ti imponesse i suoi ritmi, le sue abitudini, le sue idee dimenticando di essere a casa d'altri e finendo per far sì che i ruoli si invertano: lui il padrone e tu l'ospite, tollerato solo in quanto capace di adeguarsi alle nuove regole.

E' importante però mettere in evidenza che non esiste solo questa realtà, e per una certa percentuale di immigrati che rientrano nella descrizione sopra delineata ne esiste indubbiamente una assai maggiore formata da stranieri che vengono in Italia con la reale intenzione di integrarsi, persone che si propongono con il giusto atteggiamento, fatto di rispetto, gratitudine, umiltà, voglia di costruire materialmente con sacrificio e onestà il loro futuro. E' inutile fare i falsi moralisti e pensare che chi viene accolto in terra straniera possa essere libero di atteggiarsi in modo prepotente e prevaricatore, al fine di potersi sentire a proprio agio; non è così che funziona: chi chiede ospitalità deve attenersi ad un certo codice di comportamento, così nei riguardi dell'anfitrione che gli mette a disposizione la propria dimora come verso il popolo che lo ospita dandogli un'opportunità nel proprio Paese Sono le persone che rispettano queste regole di comportamento quelle che finiscono poi per essere realmente integrate nella nostra realtà, seppur conservando la propria cultura e le proprie tradizioni: sono queste le diversità che - se vissute con reciproco rispetto e nel più generale accoglimento di un unico codice sociale e normativo, quello del paese ospitante - consentono un arricchimento impagabile e proficuo. Impagabile è arricchire le nostre conoscenze, proficuo è imparare a convivere con tutti, senza pregiudizi.

Conosco tante persone straniere che si sono stabilite in Italia e che qui vivono in modo tranquillo e rispettoso delle regole, avendovi trovato un proprio spazio; mi fa piacere frequentarle e, attraverso il loro bagaglio di cultura, conoscenze e tradizioni, mi fa piacere poter arricchire il mio.
Conosco stranieri che qui da noi non hanno ancora trovato il loro spazio e la possibilità di realizzare i loro sogni: sono persone che non per questo si sentono in diritto di comportarsi come se venisse loro il resto, con arroganza e prepotenza, ma che perseverano nel loro atteggiamento umile e rispettoso: mi muovono ad una enorme tenerezza, vorrei aiutarli tutti, e nel mio piccolo lo faccio; auguro loro, di cuore, la miglior fortuna, qui in Italia o altrove.
Ho conosciuto infine stranieri della peggior risma: mi è capitato di toccare con mano la loro arroganza, la loro indole violenta e incline a delinquere, e li ho odiati, per il danno che arrecano alla nostra società ed anche all' immagine dell'immigrato straniero in Italia.

Non ritengo di essere l'unica persona a pensarla così rispetto a quest' argomento e nemmeno una delle poche. In realtà credo che la mia sia la posizione comune degli Italiani rispetto agli immigrati, posizione che può sintetizzarsi in una frase tipica del tipico uomo medio: "Gli stranieri non sono un problema se si comportano secondo le regole di chi li ospita; altrimenti, possono starsene a casa loro.".

Che dire poi del nostro passato da emigranti? E' vero, molti Italiani sono stati accolti da diversi paesi stranieri quando qui non c'erano opportunità, hanno cercato e spesso trovato fortuna all'estero. Ma non è stato loro regalato nulla: si sono rimboccati le maniche lavorando in condizioni difficili, lontani dalle famiglie e spesso circondati dall'ostilità e dalla diffidenza di chi li ospitava, ostilità e diffidenza che sono riusciti a vincere con la costanza di un comportamento corretto, onesto e rispettoso. Gli Italiani hanno saputo integrarsi, adeguandosi agli usi e costumi dei paesi in cui erano ospiti, senza per questo perdere la loro identità, ancora oggi così fortemente presente e sentita nelle comunità italiane all'estero. Certo, in mezzo a tanta gente onesta c'è stato chi, emigrando, ha portato con sè la delinquenza, ma questa è riuscita ad attecchire e a proliferare solo là dove ha trovato terreno fertile. Sto pensando agli Stati Uniti ed al fenomeno della mafia americana: in questo caso, lo scarso spessore delle istituzioni rispetto ad un tessuto sociale dove già esistevano il clientelismo e la legge del più violento hanno rappresentato l'humus ideale affinchè la mentalità mafiosa potesse instillarsi nei gangli del sistema.
E, per finire, non dimentichiamoci che i flussi migratori che ci hanno coinvolti sono avvenuti verso paesi dove c'erano spazi ed opportunità effettivi ed in periodi di crescita ed espansione economica, mentre oggi i nostri immigrati si trovano a dividere con noi una forte crisi economica, una saturazione del mercato ed una conseguente carenza di posti lavorativi, ragion per cui il paragone tra il nostro stato di emigranti del passato e la nostra attuale posizione di popolo ospitante flussi migratori dall'estero non può in alcun modo reggere.

Ecco dunque che, al termine di questa mia analisi forse non completa ma certamente serena ed obiettiva, sono riuscita a sviscerare il perchè mi fossi tanto innervosita di fronte alle parole dei miei vicini d'ombrellone, parole permeate da un irritante buonismo, nella peggiore accezione del termine, e da un atteggiamento denigratorio degli Italiani popolo di razzisti assolutamente ingiustificato.

venerdì 7 agosto 2009

INIZIA IL VIAGGIO

Ecco, mi sono messa in moto. E' una ben strana concatenazione di circostanze quella che ora mi fa essere qui a scrivere di un viaggio complicato, iniziato per un verso tanto tempo fa, ma in realtà ancora da compiere.

Oggi ero in cucina con mio figlio, un ragazzino brillante e poliedrico, ed assistevo tra il divertito e l'irritato ai suoi tentativi di dare inizio allo svolgimento dei compiti delle vacanze, tentativi accompagnati dalla musica dell' iPod sparata a tutto volume e intervallati da qualche pezzo improvvisato alla batteria in sala, nel tentativo di accompagnare le canzoni più coinvolgenti.
Ho iniziato a prestare attenzione ai testi in inglese, per vedere se i dieci giorni appena trascorsi a San Francisco mi avessero in qualche modo aperto la mente rispetto alla lingua ... Niente da fare: la mia comprensione non riusciva ad andare oltre il ritornello e - visto che si trattava di testi famosissimi quali Let it be o Who can it be now - non mi pare si possa parlare di un grosso successo.
Frustrata dalla mia inettitudine e rammentando come mio figlio più grande spiegasse a chi si complimentava con lui per l'eccellente inglese che questo era frutto di un lavoro fatto ascoltando canzoni in lingua e traducendole, ho pensato bene di piazzarmi davanti al computer per cercare su Internet i testi delle canzoni, nel tentativo di capire qualcosa di più di una pronuncia che per me resta arabo allo stato puro.
Mentre ero affaccendata in questo arduo impegno, chissà com'è mi è tornata alla mente la prima strofa di quella che io ricordavo come una preghiera in inglese, imparata un'eternità di tempo fa, quando frequentavo il primo anno di scuola in quel di Little Gaddesden, Inghilterra. Eh già perchè - incredibile ma vero - un' anglofona ignorante e incapace come me ha pure il coraggio di vantare nel curriculum i primi cinque anni di vita trascorsi in terra britannica... Purtroppo, quel che allora appresi con estrema facilità e naturalezza, nel corso degli anni è andato perdendosi tra i meandri più reconditi della memoria, rimanendoci peraltro irrimediabilmente intrappolato.
Ma ecco che oggi da quei meandri è riemerso il vago ricordo di una strofa, la cui eco suonava all'incirca così: "Jesus makes a shine like a poor light ...". Già una volta, tempo addietro, avevo tentato di ritrovare su Internet il testo integrale, ma senza alcun risultato, però oggi ci ho voluto riprovare, ed ho avuto maggior fortuna: digitando come parole-chiave "Jesus makes a shine preghiera per bambini" sono finita nel blog di tale Bhuidhe, una ragazza scozzese che adesso vive a Varese e che in un suo post citava proprio quella che ho scoperto essere in realtà una canzoncina per bambini. Con le parole esatte della citazione sono riuscita finalmente a risalire al testo integrale: l' ho letto e riletto con un'emozione struggente, commovendomi fino alle lacrime, mentre mio figlio - richiamato dal mio entusiasmo - si prendeva gioco di me e delle mie reazioni così forti.
Ho pensato che quei versi, quelle parole che con tanta dolcezza mi riportavano a teneri momenti della mia infanzia non potevano andare nuovamente perduti, ma dovevano essere conservati come qualcosa di prezioso. Perciò li ho trascritti sul mio libro bianco, dono di una cara amica, le cui pagine raccolgono pensieri, riflessioni, stralci di diario, schizzi di disegni. Poi, li ho riletti ancora una volta, provando una nuova emozione al pensiero che - come avevo registrato di sfuggita sul post di Bhuidhe - quella canzoncina infantile rappresentava anche per altri un qualcosa di davvero speciale. Questo mi ha spinto a ritornare sulle pagine del suo blog GRANEPADANE per scorrerle con maggiore attenzione, scoprendovi una persona sensibile, spiritosa e gradevole giocoliera delle parole. Senza capire bene come (la mia abilità in campo informatico è pari a quella per le lingue) sono entrata anche in altri blog di quest' autrice della rete e, leggendo alcuni dei suoi racconti, mi si è aperto un mondo: da sempre arde dentro di me il desiderio di scrivere, come un piccolo fuoco che non ho mai trovato il coraggio di alimentare. E quello del blog può essere lo strumento adatto, può rappresentare la via giusta per dar sfogo ad una vena artistico-letteraria che da tanto preme per essere esternata e messa alla prova.

Ora, nella mia ignoranza di quello che è il moderno linguaggio mediatico, fino ad una settimana fa non sapevo assolutamente che cosa fosse un blog: l' ho scoperto quando mio figlio più grande, Riki, ha deciso di crearne uno per raccontare la sua avventura americana. Questo ha reso più facile il mio approccio odierno con la decisione di lanciarmi nel tentativo di scrivere in rete.
Non è stato comunque facile: ho perso delle gran belle ore davanti al monitor, ma alla fine sono riuscita a creare il mio blog, anche se ancora non ho capito bene come abbia fatto e come funzioni. E così, eccomi qui a digitare sui tasti del computer, usando indici e medi, nonchè i pollici per spaziare (anche come dattilografa la mia abilità lascia a desiderare...). Il viaggio è iniziato e nei prossimi post vedremo dove mi porterà la strada, augurandomi che sia lunga e fertile in avventure e in esperienze.


  1. Jesus bids us shine with a clear, pure light,
    Like a little candle burning in the night;
    In this world of darkness, we must shine,
    You in your small corner, and I in mine.
  2. Jesus bids us shine, first of all for Him;
    Well He sees and knows it if our light is dim;
    He looks down from heaven, sees us shine,
    You in your small corner, and I in mine.
  3. Jesus bids us shine, then, for all around,
    Many kinds of darkness in this world abound:
    Sin, and want, and sorrow—we must shine,
    You in your small corner, and I in mine.

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Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sara` questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
ne' nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l'anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d'ogni sorta; piu' profumi inebrianti che puoi,
va in molte citta` egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos'altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
gia` tu avrai capito cio` che Itaca vuole significare.

Kostantin Kavafis